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88 l’edera

fin sulle cime più alte. Montagne bianche e azzurre, alcune ancora velate da vapori fluttuanti che il riflesso dell’aurora tingeva d’un rosa dorato, chiudevano l’orizzonte. In lontananza, ai piedi della montagna boscosa dalla quale scendeva direttamente la valle, scorgevasi ancora il villaggio, bianco e nero tra il verde delle macchie; e più in qua, in una conca grigiastra, si distinguevano le rovine d’un altro paesetto, i cui abitanti, — diceva la leggenda popolare, — erano tutti morti durante una pestilenza misteriosa, o erano stati esterminati in una notte sola dagli abitanti del villaggio vicino che volevano allargare il loro territorio.

Paulu sentiva la poesia del mattino e la bellezza del luogo. Da molto tempo non s’era sentito così allegro e felice: gli pareva d’esser tornato adolescente, quando partiva da casa sua, allegro e spensierato come un uccello, e correva in cerca di piacere, ignaro dell’avvenire. A momenti si metteva persino a cantare.

Sas aes chi olades in s’aèra
Mi azes a jucher un’imbasciada...1


E la sua voce fresca e sottile come voce di donna risuonava nel silenzio del sentiero, e il cavallo scuoteva un’orecchia, quasi l’infastidisse l’insolita gajezza del padrone. Ma Paulu lo spronava


  1. O uccelli, che volate per l’aria,
    Mi porterete un’ambasciata...