Pagina:L'imperatore Diocleziano e la legge economica del mercato.djvu/16

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al presente, significa soltanto che era allora eguale a quello che è in oggi il rapporto fra i metalli preziosi dall’una parte e la somma dei beni dall’altra; e più esattamente, non la somma dei beni in generale, ma di quelli che all’una e all’altra epoca formano oggetto di contrattazione monetaria, in altri termini, ciò vuol dire, senz’altro di più, che è eguale nei due tempi il rapporto fra la quantità della moneta e la somma delle contrattazioni fatte in moneta. In via assoluta, anzichè in via relativa, ossia di rapporto scambievole, moneta e beni mercatati potevano allora differire in qualsiasi proporzione da ciò che sono al presente, e per certo ne differivano enormemente, e ne differivano in meno. Per modo di esempio, in luogo di moneta 10, beni 100, vi potea essere non più di moneta 1, beni 10: — rapporti eguali, valori assoluti differenti dal semplice al decuplo.

Certo saremmo ben modesti a credere di non esser oggi più ricchi, o men poveri, di quello che fossero i docili sudditi di Diocleziano, se anche i nostri preposti non si prendano ormai più tanta cura della felicità nostra, da giungere a confortarci di una legge universale del massimo, come doveva esser quella; ed anzi lo siamo, e più lo diverremmo in buona parte per questo.

Una cosa rimane a vedersi: vale a dire per quali mezzi Diocleziano intendesse imporre il proprio editto a quelle arpie d’incettatori ed altra simile bruttura, che egli reputa sì scaltri e rapaci. Vuolsi cioè conoscere, a dirla con certa solennità, qual fosse la sanzione della legge: punto assai delicato, ben s’intende.

Poi v’ha il quesito ultimo, cioè come l’intimazione abbia provato nella pratica, e quale effetto siasene conseguito. — È il supremo argomento dell’esito, che conchiude tutte le ragioni, e le vale tutte ad una volta.

Sul primo punto Diocleziano è di una decisione, e direbbesi (se altro fosse) d’una ingenuità veramente portentosa. Comincia dal mettersi sotto il grave patrocinio degli antenati, i quali, uomini esperti, sempre inculcavano l’osservanza de’ loro editti mediante il timore di una pena (nota egli); soggiunge filosoficamente che il timore è il solo giustissimo moderatore in simiglianti ufficj, avvegnachè l’uomo difficilmente si lasci indurre al bene per solo buon volere; e perciò non gli sembra che punto esorbiti la sanzione se i violatori dell’editto, e i loro complici, e chi celasse le derrate per non recarle al mercato, sieno puniti niente meno che colla pena capitale. — E chi mai oserebbe, dic’egli, dar taccia di du-