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l'ombra del passato 13


Il canto degli usignuoli sembrava più dolce e flautato in quel luogo deserto. Adone si fermò per guardare un nido che egli adocchiava da qualche giorno, e sul quale gli pareva di poter accampare diritti di proprietà.

Il barcajuolo andò avanti, si perdette nell’ombra del viottolo: dello zio si udiva la voce, ma non si vedeva ancora la persona. E Adone profittò subito della sua solitudine: piano piano, facendo gesti da piccolo commediante, depose il cestino per terra, sollevò cautamente la salvietta, annusò con voluttà il buon odore del pollo. Ma non era questo che egli cercava. E all’improvviso cominciò a ridere, con un gorgheggio che si unì a quello degli usignuoli: ma subito ritornò serio, pensieroso: prese dal cestino due coppie di calum, grosse ciliege dure e lucenti come il corallo, e se le mise sulle orecchie. E riprese il cestino, ma dopo altri venti passi si fermò ancora, e mangiò i suoi bizzarri orecchini. Fu un attimo di voluttà. I suoi grandi occhi d’un bruno dorato, diventarono languidi e tristi. Egli fu tentato di prendere altre ciliege; ma la voce dello zio risuonò più forte e più vicina.

Il gigante parlava di lui: ed egli non dimenticò mai quel discorso:

— Sì — diceva la voce profonda. — Adone deve fare il paisan. Perchè dovrebbe studiare? Per diventare impiegato o prete? Gl’impiegati si rovinano lo stomaco: i preti vanno incontro a brutti tempi. Adone deve badare alla sua roba. Io l’ho preso con me per questo. Non ho fratelli nè sorelle: gli altri