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Pagina:L'ombra del passato.djvu/231

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l'ombra del passato 227


Passando vicino a un campo coltivato a pomidoro vide emergere, tra il verde umido delle pianticelle attaccate a grossi bastoni di salice, la testona gialla di Agostino il gemello.

— Come va? — egli salutò.

L’albino miope venne fuori dal campo, e disse che di salute stava benone, ma che aveva molti dispiaceri.

— Non t’han detto? Ai primi di aprile siamo venuti, io e mia moglie, ad abitare con voi. Ma le donne non andavano d’accordo: a momenti succedeva un guajo. Allora, fila! Ce ne siamo andati via ancora. Ma bisognerebbe che la zia avesse un po’ di coscienza! Mi fa lavorare, sì, ma come? Come un contadino qualunque. Gli altri in casa, io fuori. È giusto questo? Dimmelo tu, piccolo, è giusto?

Egli sporgeva verso il giovine le sue grosse mani verdicce, odorose di pomidoro. Adone ricordava le bastonate che il gemello gli aveva dato, e gli veniva voglia di ridere pensando che ora Agostino si rivolgeva a lui per invocare giustizia.

— No, non è giusto, — ammise.

— Tu dovresti fare una cosa, Adone, — riprese l’albino, grattandosi forte le palme delle mani. Devi dire alla zia: «Ma non avete coscienza, zia? Pensate a quel povero Agostino». La zia, credilo, ti vuol bene: ti ascolterà. Sopratutto dille che abbia coscienza.

— Glielo dirò, — promise Adone, alquanto ironico.