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Pagina:La Italia - Storia di due anni 1848-1849.djvu/59

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improvvido esempio delle disunioni di eoncetto non venne dai popoli, sibbene dalle sofisticherie dei principi e de’ loro consiglieri; valea meglio che le costituziooi si fossero tutte assomigliate testualmente alla imperfetta opera del cavaliere Bozzelli. Con esse i governanti non pretendevano al certo di fissare il termine del nostro svolgimento civile; dovevano acquetare la suscettività negli spiriti riscossa dagli ultimi avvenimenti, e più operosamente applicarsi a costituire i forti mezzi pel conquisto della italica indipendenza.

Intanto, Francesco V, di Modena, e Carlo-Ludovico, di Borbone — il quale per la morte dell’arciduchessa Maria-Luigia era da poco assunto al ducato di Parma — rifiutando di mostrarsi principi italiani, sposarono la causa forestiera e inimica, collegandosi con un trattato offensivo e difensivo al gabinetto austriaco. Una vecchia leggenda alemanna narra che il dottor Faust, spinto da matta ambizione, di dottissimo che era, volle il suo ingegno si sollevasse al di sopra dell’umano confine e pattovì cogli spiriti inferni, perchè lo indiassero. Quei due principi imitarono l’uomo della leggenda; ed a correggere la propria pochezza, vendettero la loro esistenza al consiglio:aulico di Vienna, cui mirabilmente convenivano i patti. Imperciocché, i governi di Parma e di Modena, alleati dell’Austria, a lei davano la chiave degli Appennini, e per conseguenza le offerivano il destro di far più sicure e temibili le sue minacce ai principi costituzionali d’Italia. I due ducati vennero bentosto invasi da guarnigioni tedesche, e tedescamente i principi seguirono a governarli. Quello di Modena, per indennizzarsi delle spese che arrecavangli le truppe ausiliarie, addoppiò a’sudditi le imposte e le triplicò agl’israeliti, cui l’attività nel commercio e il soverchio della economia avevano procacciato immense ricchezze. E i Modenesi per trarne alcuna vendetta, deliberarono vestirsi co’ tessuti di mezza lana e di cotonine terriere, piuttosto che impinguare lo erario del duca, pagando dazi sui prodotti delle fabbriche austriache. Il Borbone di Parma vuotava le casse per appagare i suoi bisogni sempre crescenti e per assoldare gli antichi suoi dragoni lucchesi, abilissimi nel caricare il popolo inerme, i quali si consideravano l’avanguardo dell’armata tedesca. In ambidue i principi ignoranza de’ tempi, millanterie fuor di luogo, dissennato vivere; e se il più giovane troppo spesso falliva per la nessuna sperienza degli anni e per pessima gesuitica scuola, il più vecchio — erede delle superstizioni e delle fanciullesche smanie de’ suoi parenti — aduggiava con cotidiane follie spensierate le popolazioni che i trattati di Vienna gli davan soggette.

E l’uno e l’altro davano ricetto ai chercuti settari del dispotismo teocratico-politico che i sorti popoli cacciavano a furia dai loro paesi. Le loro subdole arti, note dapprima al ceto medio il più illuminato d’Italia, erano state a sufficienza chiarite anche al grosso delle moltitudini dai volumi di Vincenzo Gioberti. I Genovesi furono i primi a intimar loro lo sfratto. Il palazzo Tursi-Doria, dove i padri delle tenebre si avevano il collegio, venne incontanente occupalo dal quartier generale della guardia civica. In Torino la gioventù seguita da gran folla, cantando inni patriottici, dirigevasi in Dora-Grossa verso la loro casa. Il governo fece pregare il marchese Roberto d’Azeglio e l’avvocato Brofferio perchè volessero