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vedermi, tua mercè, a tiro di quattro e col battistrada. Lo spirito costa molto olio. Siamo poi troppo signori per diventare mai ricchi.
¡Animo dunque! ti dazia e riempi il tuo posto. ¡Ve’ che poltrone! ¡Che molle! oh che molle! Se la tua regnante Maestà — come desidero e spero e per essa e per me — ha pranzato da papa, troverà qui da disporre ampiamente la intimpanita ventraja, e potrà, cullata dal tepor della sala, succiarsi il pisolino del chilo, senz’altro timore da quello all’infuori di pèrdere la commedia, il che è forse un guadagno; se, invece, la è favorita da qualche polposo vellicatore contatto, la Libìdine tua ha di che stare a tutta sua voglia stipata in un disagio agiatìssimo. E di più, nei ritagli di tempo, badando un poco anche a mè e non isdegnando la tenue fatica di pensare il pensato, potrài mantenerti sull’esercizio di quella lingua italiana, in cui l’innesto lombardo distrugge la scròfola fiorentina, e ¡chissà mai! accattarti una dozzina di concetti ingegnosi, da improvvisare poi per tuòi propri, così facendo una figura men ladra nel mondo della parola, e così confermàndoti nella buona opinione, che tieni, senz’alcun forse, di tè.
Ma ecco, sul limitare, tra il vorrèi e il non posso, una rispettàbile dama. È una madre, incerta tra le ghiotte promesse di un cartellone e la verginale apparenza di una fanciulla, che le stà braccio a braccio. ¡O non tema, signora! Entri pure a cuor sciolto. Punto primo; la vera