Pagina:La desinenza in A.djvu/59

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Ed ecco, Pubblico mio, la casa; ecco il piccolo mondo, dove ciascuno possiede il vero suo regno, un regno in cui si comanda a chi amiamo e ci ama; ecco il sacrario del fatale palladio della politica quiete, la pentola; o, se meglio v’aggrada, quel camerino dove si studia la parte da recitare in istrada e il genio ci appare in mutande e... Dite «basta», vi prego. Che io, di tutta sta roba, farò come di un pomo. Con il coltello della fantasia la spacco. Ve’ che taglio nettissimo!

Passeggiamola ora col guardo. Il primo piano può dirsi un cannocchiale di stanze. Tutto è seta, velluto, tutto è oro, cristalli. Male potrebbero i più tèneri piedi desiderare una maggiore morbidità di tappeti; male saprebbe una logorissima schiena imaginarsi imbottiti più voluttuosamente cedèvoli. Eppure, fuorchè i servitori, non ci si trova nessun altro padrone, il che vuol dire che a meraviglia non ci si sta. Nel salottino della signora, una tenda è strappata, un pajo di sedie rovescie, e, di più, stelleggia nel vastissimo specchio un gran crepo, colpa forse quel braccialetto che innanzi gli giace ammaccato. Fatto è, che il padrone se l’ha scivolata di casa con una cera più muffa del consueto, gualcendo un mazzo di polizzini, e che la signora scarrozzò via con la vendetta nel volto; egli, probabilmente a pagare dei dèbiti, ella certissimamente a farne. Ma a che ti scalmani, o marito? a che spesseggi i picchii irritati del tuo nodoso bastone