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Pagina:La fine di un regno (Napoli e Sicilia) I.djvu/135

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abate di Cava; don Gioacchino Cestari, di Montevergine, monsignor Elia, gran priore di San Nicola di Bari, e monsignor Falconi, arciprete mitrato di Acquaviva e Altamura.


Ma, tra gli alti ecclesiastici, il nome che, per una serie di casi, venne più ripetuto e discusso, fu veramente quello di monsignor Niccola Caputo, vescovo di Lecce, nobile napoletano di famiglia marchesale, ora estinta nei Palamolla, perchè l’unica sua sorella, marchesa di Cerveto, sposò quel Biagio Palamolla, marchese di Poppano, che ospitò, come si è detto, Ferdinando II a Torraca nel 1852. Vescovo fin dal 1818, egli era quasi decrepito. Lo amavano i suoi figliani per la inesauribile bontà. Liberaleggiò nel 1848, come liberaleggiarono quasi tutti i vescovi del Regno, e quando infierì la reazione, non imitò il D’Avanzo, nè il Montieri, nè il Longobardi. A Lecce era intendente un fanatico in politica, ma personalmente retto, il Sozi Carafa. O per opera dell’intendente, o per denunzie pervenute in Corte, monsignor Caputo fu chiamato dal Re e tradotto, si disse, tra i gendarmi, fino a Capua, dove il Re lo ricevette per ammonirlo severamente, presente il cardinal Cosenza. Gli scrittori di Corte stamparono che il Re avesse chiamato monsignor Caputo per accertarsi de visu delle sue condizioni di salute e giudicare se fosse il caso di dargli un coadiutore. Cosi affermò, tra gli altri, monsignor Salzano, testimone assai sospetto.

Nei suoi confronti fra i bilanci sardi e napoletani, esaminando gli affari ecclesiastici di Napoli, Antonio Scialoja, dopo aver notato che l’alto clero si era mostrato poco propenso alle novità politiche, concludeva: "Scrivendo queste parole, mi corre alla mente il nome d’un personaggio ch’io non conosco, ma che fuori e dentro il Regno ho cento volte udito ricordare con riconoscenza e con affetto: il nome di monsignor Caputo, vescovo di Lecce. Questo vecchio venerando non è stato neppur lui esente da violenze politiche; e sebbene estraneo alle passioni del mondo e vero ministro del Vangelo, fu tratto come prigione tra gendarmi da Lecce sino a Napoli, e condotto al cospetto del principe, per giustificarsi non saprei di qual colpa, se non fosse quella d’essere un santo vescovo ed un uomo dabbene. La fronte serena e solcata dagli anni, il viso aperto, l’aspetto umile ad un tempo ed imponente dell’onesto uomo oltraggiato, e quella