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Pagina:La fine di un regno (Napoli e Sicilia) I.djvu/208

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Nelle ore pomeridiane il Re usciva con la Regina in un phaeton, che guidava egli stesso, preceduto o seguito da plotoni delle guide dello stato maggiore. Lungo la via, sino alle vicinanze di Formia, erano, ad ogni trenta o quaranta passi, piantoni di guide a cavallo, e quando il Re passava, s’ingiungeva ai viandanti di fermarsi, ma non per pompa, da cui repugnava. Non più gale, difatti, non più feste, non più grandi cerimonie, come prima del 1848. Verisimilmente, il pensiero che tanti soffrivano per lui doveva riuscirgli molesto e togliergli quella pace dello spirito, che ebbe intera nei primi anni del suo regno. Non cessò mai di occuparsi delle cose dello Stato, anche delle minime. Egli era informato di tutto. Non i soli ministri lo informavano, perchè i diplomatici, i vescovi e gl’intendenti delle Provincie corrispondevano direttamente con la sua segreteria particolare; una specie di cancelleria aulica o, addirittura, il primo dei ministeri. Le cose più gravi riguardanti la politica, erano riferite direttamente al Re, che dava istruzioni e ordini, spesso senza saputa dei suoi ministri, con lettere autografe, familiari e precise e nella loro brevità, non prive d’idiotismi napoletani, scritte col voi, ma più ordinariamente col tu, sopra foglietti di carta comune, e che si chiudevano, quasi invariabilmente così: conservatevi bene in salute, e credetemi: vostro affezionato Ferdinando; ovvero: ti raccomando la salute, caro generale (o duca, o principe, sempre col titolo, insomma), e credi all’amicizia del tuo affezionato Ferdinando. Il governo si accentrava nella sua persona, e non è maraviglia se tutte le responsabilità si facessero risalire a lui e di ogni birberia si volesse vedere in lui la cagione o l’origine. Dopo il regno di Luigi XIV, io non credo che il motto: "lo Stato son io„ trovasse applicazione più perfetta di quella, che trovò in Ferdinando II negli ultimi anni del suo regno. Era quindi naturale che tutti gli odii si accumulassero sul suo capo, e che fosse divenuta generale la persuasione che, tolto lui di mezzo, il Regno avrebbe acquistato il benessere e la felicità. Egli sapeva di essere odiato da molta gente, e sapeva, del pari, che si cospirava contro di lui, fuori del Regno e che magne fucine di cospirazioni erano Torino, Parigi e Londra, ma principalmente Torino, che detestava quasi senza farne mistero. Però aveva una gran fede in sé stesso: la fede che, lui vivo, nessuna no-