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Pagina:La fine di un regno (Napoli e Sicilia) I.djvu/297

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riunioni si discorreva d’arte, di storia, di letteratura; si faceva buona musica e alle volte, nel teatrino di famiglia si rappresentavano commedie del padrone di casa, o di giovani suoi amici. Tarantini aveva simpatica cultura letteraria, vivace talento e genialità poetica, scriveva versi e drammi pregevoli ed era inoltre, tutti lo ricordano, col Marini Serra, il maggior lume del fôro penale. La borghesia di secondo e terzo grado contava le sue tradizionali periodiche, e poichè in quegli anni il Trovatore aveva fatta perdere la testa ai napoletani, non vi era periodica, dove un qualunque tenore non cantasse:

Di quella pira l’orrendo foco,


e un baritono non urlasse:

È l’amore, l’amore ond’ardo,


e una qualunque signorina sentimentale e un tenorino senza voce non ripetessero, al piano, il duetto fra Manrico e Leonora. Si cantava a tutto andare l’aria del Rigoletto:


e l’altra, non senza malizioso significato:

Questa e quella per me pari sono.


Erano immancabili, nelle periodiche, le canzoni popolari, e Santa Lucia, la Palummella janca, Scetete scè, ’U cardillo, e Fenesta ca lucive risuonavano dappertutto. Fenesta ca lucive conta forse più di un secolo di vita ed è sempre viva, perch’è la canzone di maggiore sentimentalità che abbia avuta la poesia popolare. Te voglio bene assaje, improvvisata dal Sacchi e anteriore al 1840, era morta da un pezzo, e Santa Lucia, a torto attribuita al Cottrau, in quegli anni furoreggiava. La Borghi Mamo faceva andare il pubblico in visibilio, cantandola in dialetto al San Carlo nella scena della lezione di musica del Barbiere di Siviglia, i cui primi versi erano stati così ridotti:

Comma se fricceca
La luna chiena,
Lu mare è scuro
L’aria è serena ecc.