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gelo, nelle carceri nuove di Roma e nel forte di Civita Castellana; a tutti coloro, infine, che mi hanno conosciuto ne’ miei ventun anni di esilio in Svizzera, in Inghilterra e nelle varie parti d’Italia. Calunniato in politica dai manipolatori del Comitato Nazionale Romano — come dirò in seguito — nessuno però ha messo mai in dubbio la mia onestà.

In quanto all’ambizione, io non ne ho avuto altra, che di essere uomo onesto e di farmi credere tale.

Basteranno due soli fatti: il primo dell’essere rientrato in Roma dopo la campagna del Veneto del 1848-49 collo stesso grado di maggiore, che il prode generale Ferrari volle conferirmi, quando in Ancona mi chiamò ad assumere le funzioni di Capo di Stato Maggiore; quantunque facessi sempre inappuntabilmente il mio dovere e godessi della benevolenza ed affezione del prode generale, che mi chiamò nel suo testamento suo esecutore testamentario: il secondo dell’essere passato dal posto eminente di Triumviro della Repubblica Romana, dal quale mi dimisi volontariamente, a quello più modesto di ministro dei Lavori pubblici e del Commercio, che mi si volle imporre dal secondo Triumvirato; ed aver finito col dover accettare nel breve spazio di pochi mesi, il posto di sostituto al Ministero della Guerra. Se i destini avessero arriso alla Repubblica Romana, andando di questo passo, avrei finito per essere portiere del Triumvirato! La mia abnegazione non era però merce rara in quei tempi.

Che io poi sia stato unicamente mosso dall’idea del dovere lo provano e la condanna alla galera in vita con cui furono coronate le mie cospirazioni giovanili, e il mio lungo esilio in cui vissi unicamente per opera della mia mente e del mio braccio, senza ricevere sussidi di sorta, nemmeno dai Comitati di soccorso, che per opera nostra si costituivano in Svizzera ed in Inghilterra: e lo