Pagina:La guerra del vespro siciliano.djvu/278

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262 la guerra [1284]

se s’attentasse uscire, e se no, inchiodandola ne’ porti; e poi, sbarcato l’esercito nell’isola, non più campeggiar luoghi forti, ma dare il guasto al paese, bruciar le messi, divider le città, e desolate sforzarle a sottomettersi. Vietava Carlo al figliuolo qualunque fazione pria ch’egli venisse di Provenza con la flotta1. Trenta galee tenea pronte il principe a Napoli, quaranta a Brindisi. Entro pochi dì, operata la congiunzione di tutta l’armata ad Ustica2, cento navi da battaglia e più assai da trasporto, verrebbero a por la Sicilia a soqquadro.

A tempo il seppe Giovanni di Procida, gran cancelliere, pei suoi molti rapportatori che in terraferma vegliavano assidui il nimico. Onde nel consiglio della regina, considerato il grave frangente; lungi il re; non esercito pronto; poca l’armata, l’audace partito si deliberò in cui solo era salvezza: assaltare gli Angioini risolutamente pria che tutte adunasser le forze. A ciò trentaquattro galee e più legni minori s’armano in fretta nel porto di Messina, di scelta gente catalana e siciliana, di finissime armi, di nobili arredi. Come la flotta fu in punto, Costanza fatto a sè venire, coi capitani minori e i piloti, l’ammiraglio, nudrito seco del medesimo latte, educato in sua corte, con vive parole rimembragli l’affetto della casa reale d’Aragona: tutto per lei andarne su quest’armata; l’onor del re, la corona, sè stessa e i figliuoli a due soli commetteva, a Dio e a Ruggier Loria. A questo dire le s’inginocchiava ai

  1. Nic. Speciale, lib. 1, cap. 27.
  2. Bart. de Neocastro, cap. 76.