Pagina:La guerra nelle montagne.djvu/13

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e al calpestio delle carrette, giacevano, in teorie innumerevoli di cimiteri, quei morti italiani, che, per i primi, avevano resa accessibilie la via alle maggiori altezze.

«Li abbiamo trasportati giù e li abbiamo seppelliti dopo ogni battaglia», disse l’ufficiale. «Vi furono molte battaglie. Reggimenti intieri giacciono lì, là e... là! Alcuni di essi morirono nelle prime giornate, quando facevamo la guerra senza strade: altri morirono dopo, quando avevamo le strade, ma gli Austriaci avevano i cannoni. Altri, infine, morirono quando battemmo gli Austriaci. Guardate!»

Veramente, come dice il poeta, la battaglia è vinta dagli uomini che cadono. Dio sa quanti figli di madri dormono lungo il fiume, dinanzi a Gradisca, all’ombra della prima barriera dell’orrido Carso! Essi possono sentire il loro popolo indomito aprirsi col fuoco sempre più la strada verso Oriente e verso Trieste; la vallata dell’Isonzo moltiplica il ruggito dei pezzi pesanti intorno a Gorizia e alle montagne più a nord; e talvolta i velivoli nemici squarciano e sconvolgono quei luoghi di eterno riposo. I morti eroi giacciono, per così dire, in una fucina gigantesca, dove gli anelli della nuova Italia stanno ribadendosi sotto il fumo, la fiamma e il calore; calore che emana lì innanzi, dalle secche del fiume; calore che proviene dalle riarse alture elevantesi dietro a loro.

La strada si insinuava su per il monte, fra trincee morte, e reticolati di filo di ferro spinoso,