Pagina:Laerzio - Vite dei filosofi, 1842, I.djvu/179

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148 capo viii

dio chi dei beni e dei mali apprese a fondo a ragionare. — E non essere in natura il giusto o l’onesto od il turpe, ma per legge ed usanza. Quindi l’uom dabbene nulla opera di sconvenevole per le pene stabilite e le opinioni. Essere perciò il sapiente. — E in filosofia e nel resto lasciano un progresso. — E dicono anche sentir più dolore uno che un altro, e i sensi non sempre esser veraci.

IX. Egesiaci. — Quelli che si chiamano Egesiaci avevano lo stesso scopo di questi, il piacere e il dolore, nè la gratitudine, nè l’amicizia, nè la beneficenza tenevano essere alcun che, a motivo di cui noi le amiamo, nè per sè stesse, ma pel solo utile, tolto il quale ne desse sussistere. — La felicità essere, per intiero, impossibile: poichè quando il corpo è afflitto da molti mali, l’anima soffre col corpo e si turba e la fortuna molte cose che si sperano impedisce. Ond’è che per questo non può esistere felicità. E la vita e la morte desiderabili. — Credevano che per natura nessuna cosa fosse gradevole o sgradevole; e che per la rarità, o la novità, o la sazietà questi godesse, quegli non godesse. — Povertà e ricchezza, parlaudo di piacere, nulla essere perchè i ricchi o i poveri non differiscono nel godere. — Parimente serivitù da libertà indifferente, riguardo alla misura del piacere, e nobiltà da ignobiltà, e rinomanza da non rinomanza. — E il vivere certo esser utile allo stolto, ma indifferente al prudente. — E il savio essere per fare ogni cosa a suo pro, non istimando del pari degno di lui nulla che sia di altri. Poichè sebbene grandissimo gli paia ciò ch’altri ha conseguito,