Pagina:Laerzio - Vite dei filosofi, 1845, II.djvu/298

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circa i complici e l’armi, ch’erano state portate a Lipara, affermò, onde colui rimanesse solo, che di tutto consapevoli erano i suoi amici. Poscia soggiugnendo che intorno a taluno qualche cosa avea da dirgli all’orecchio, addentandoglielo, non prima il lasciò che cadesse trafitto; lo che ebbe in comune col tirannicida Aristogitone. Demetrio, negli Omonimi, afferma che gli morsicò il naso; ma Antistene racconta, nelle Successioni, che dopo di averne denunciati gli amici, interrogato dal tiranno, se alcun altro vi fosse, egli rispose: Tu, peste della città! e che dopo di aver detto agli astanti: Meravigliomi della vostra codardia, se, in grazia di ciò ch’io patisco, servirete al tiranno, spiccatosi finalmente la lingua co’ denti la sputò ad esso in faccia; e che i cittadini concitati a quel fatto lapidarono il tiranno. Queste cose, presso a poco, si vanno narrando dai più. Ma Ermippo asserisce che gettato Zenone in un mortaio, vi fu pestato. — Sopra di lui noi parliamo così:

     Tu volevi, o Zenon, volevi torre,
     Uomo egregio, la patria dal servaggio.
     Il tiranno uccidendo. Ma cadesti
     Oppresso. Perocchè tosto il tiranno,
     Presoti, in un mortaio ti pestò.
     Che dico! Te non già, ma il corpo solo.


VI. Zenone, se in altre cose preclaro, il fu eziandio, al pari di Eraclito, nel guardare con ispregio i più grandi; poichè egli, quella che prima fu Iele e da ultimo Elea, colonia fenicia e sua patria, città meschina e solo