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I fanatici del Turchestan. 125

Abei entrava nella cittadella, scortato da quattro artiglieri, passando fra due altissime muraglie di mattoni, che oscillavano pericolosamente ogni volta che i cannoni dei ridotti tuonavano sulla cima delle scarpate.

All’estremità dello stretto sentiero, che girava intorno ai bastioni, su una piccola spianata dove si trovavano collocate, su dei cavalletti, alcune racchette, lo aspettava il beg di Schaar, appoggiato sulla sua lunga e molto arcuata scimitarra.

— È vero che tu sei il figlio di Abei Hakub? — chiese l’ex luogotenente dell’Emiro di Bukara, mentre il giovane scendeva da cavallo.

— Forse che non somiglio a mio padre, beg? — chiese il giovane. — Mi hanno detto che sono il suo ritratto.

— Infatti — disse il beg, — tu mi ricordi l’uomo a cui io devo la vita. Che vuoi da me?

— Hai saldato verso mio padre il tuo debito di riconoscenza? — chiese Abei.

Il beg lo guardò un po’ inquieto, mentre faceva cenno agli artiglieri di allontanarsi.

— Tu giungi in un brutto momento, giovanotto, — gli disse poi. — Abbiamo i russi alle porte della città.

— Od invece in un buon momento? — disse Abei. — Io non sono qui venuto solo, anzi ti ho condotto cinquanta cavalieri, che forse valgono come duecento dei tuoi shagrissiabs. —

Il beg lo guardò con un certo stupore, poi un sorriso illuminò il suo volto.

— Come? — esclamò — tu vieni a chiedermi di pagarti il debito di riconoscenza che io devo a tuo padre e nel tempo stesso mi porti degli aiuti?

— Sì, ma ad una condizione, beg, — disse Abei.

— Quale?

— Che tu mandi i miei uomini ed i loro capi dove sarà più intenso il fuoco dei russi.

— Io non ti comprendo, giovinotto, — disse Babà, il cui stupore aumentava.

— Tu devi riconoscenza a mio padre?

— È vero: egli mi ha salvato la vita nella steppa, un giorno in cui una torma di ghirghisi nella piccola orda, mi aveva assalito e stava per opprimermi.