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I prigionieri. 163

— A quello basterà una buona zuppa per rimetterlo in gambe.

— No, capitano, ha una palla in corpo anche lui e non delle nostre, — rispose il sergente.

— Ed è venuto qui senza aiuto?

— Da solo.

— Avrebbe l’anima attaccata al corpo con chiavarde di acciaio? — esclamò il capitano.

— Sembra, signore.

— Allora può aspettare. Pensiamo prima a questo giovane che è più interessante di quel bufalo della steppa.

Se non è morto finora non morrà nemmeno più tardi. Fallo passare in un altro letto. —

Si avvicinò ad Hossein che era stato già deposto su un materasso e si curvò su di lui, aprendogli la camicia di seta bianca e appoggiando un orecchio sul cuore.

— Batte, — disse dopo qualche istante. — Ferita grave senza dubbio; forse non è mortale.

Cerchiamo di estrargli la palla, innanzi a tutto. —

Gli tolse la ricchissima e lunghissima fascia di seta che gli stringeva i fianchi ed in quell’atto vide cadere a terra un piccolo plico.

Lo raccolse lestamente e se lo mise in tasca, non così presto che Tabriz non l’avesse veduto. Il turchestano però non credette opportuno di fare qualche rimarco, temendo di ritardare l’estrazione del proiettile.

Il sergente intanto aveva portato la cassetta dei ferri chirurgici, mentre due infermieri preparavano fasce e filamenti di lino.

Il capitano dopo d’aver fatto bene accomodare il giovane sul ventre, si mise subito all’opera, scandagliando prima la ferita e poi allargandola.

Agiva rapidamente, con mano sicura, da uomo pratico in fatto di ferite.

Trascorse qualche minuto, lungo quanto un secolo pel povero Tabriz che non aveva voluto ancora coricarsi, poi il capitano ritirò dolcemente una specie di pinza, mostrando al sergente ed agli infermieri una palla rotonda, tutta coperta di sangue.

— Fortunatamente la scapola l’ha fermata, — disse. — Se avesse continuato il suo cammino, avrebbe attraversato il polmone.

— Non è una palla russa, è vero, signore? — chiese Tabriz i cui occhi avvampavano d’una collera terribile.