Pagina:Le confessioni di un ottuagenario I.djvu/404

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capitolo ottavo. 377

L’aria di morte che colà respirava, mi invase a poco a poco il cervello: le lagrime mi si stagnarono sulle ciglia; e l’occhio prese una guardatura vitrea e tormentosa, ch’io m’ingegnava indarno di cambiare. Mi pareva che il fuoco della vita si ritraesse da me; sentiva il gelo, i fantasmi, i terrori dello spasimo che mi opprimevano; vi fu un istante che cambiato quasi in cadavere, credetti di essere lo stesso Martino, e mi maravigliava com’io fossi uscito dalla fossa, e aspettava che di momento in momento entrassero i becchini per riportarmivi. Questo pensiero strano e spaventoso mi si ingrandiva dinanzi come la bocca d’un abisso; non più con un pensiero ma con una visione, una paura, un raccapriccio. La luce della finestra mi percosse le pupille quasi assopite; forse in quel momento il sole sbucava da qualche nuvola, e inondava la stanza cogli splendori del giorno: un desiderio d’aria, di quiete, d’annientamento s’impadronì di me. Sorsi barcollando, e mi trascinava al davanzale del balcone; ma lo strepito d’una seggiola che rovesciai nel movermi, mi svegliò un poco da quel sogno funereo. Del resto credo che mi sarei precipitato dalla finestra, e la mia vita sarebbe passata senza il lungo epitaffio di queste confessioni. Stesi la mano per appoggiarmi alla tavola, e toccai qualche cosa che mi restò fra le dita. Era un libricciuolo di devozione; quello appunto che il vecchio Martino soleva leggicchiare tutte le domeniche durante la messa; gli occhiali vi stavano ancora dentro a guisa di segno. Parve quasi che l’anima del mio amico fosse accorsa alle mie chiamate, e s’apprestasse a rispondermi dalle pagine sdrucite di quel libro; gli occhi mi s’inumidirono di nuovo, e mi abbandonai col capo nelle mani sopra la tavola, singhiozzando senza ritegno. Allora tornò, se non la calma almeno la luce nel mio spirito, e a poco a poco ricordai come e perchè fossi lì venuto; e quali dolori mi aveano fatto cercare ricovero nella memoria d’un morto.