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408 le confessioni d’un ottuagenario.

più nè de’ suoi pranzi, nè della conversazione della marchesa. Pei due giorni seguenti ne ebbi peraltro il vantaggio di trovar più saporito il minestrone del collegio: con una libbra di pane affettataci dentro, mi parve di essere a un banchetto reale. La mia camera godeva almanco d’un bel sole, e poteva alzar gli occhi senza incontrarli negli sguardi gatteschi del sollecitatore. I due scolari veronesi si abbatterono in me qualche giorno dopo nei corritoj dell’Università, ma sembravano così poco vogliosi di appiccar parola con me, come io di avvicinarmi a loro. Ne domandai conto a qualcuno, e seppi che erano i più beoni e scapestrati dello Studio. Studiavano medicina da sette anni e non avevano ancora ottenuto la laurea, e sprovvisti di mezzi di fortuna, vivevano d’inganno e di rapina alle spalle del prossimo. Io compiansi l’avvocato Ormenta di saperlo zimbello di cotali ghiottoni; ma quando mi provai ad aprirgli gli occhi sul loro conto egli mi accolse assai male. Rispose che eran calunnie, che si maravigliava molto come io ci dessi mente, e che attendessi a scoprire e a distruggere i vizii dei cattivi, non ad esagerare i difettucci dei buoni. Io cominciai a credere che la fede del buon avvocato fosse molto più pura della sua morale; poichè se quelli erano difettucci, non capiva più quali fossero i vizii ch’io era destinato a combattere.