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CAPITOLO NONO


L’amico Amilcare disfà la conversione del Padre Pendola, e mi rimette allo studio della filosofia. — Passo per Venezia ove Lucilio seguita ad insidiare la tranquillità della Repubblica e la pace della Contessa di Fratta. — Mia eroica rinunzia a favore di Giulio Del Ponte. — Un viluppo di strane vicende intorno al 1794 dà in mia mano la cancelleria della giurisdizione di Fratta, ove comincio col prestare segnalati servigi.


Fra coloro cui doveva premere assaissimo all’avvocato Ormenta e al padre Pendola di convertire, io avea conosciuto taluno che mi andava a sangue più assai dei due veronesi miei alleati. Cominciai a fare qualche escursione nel campo nemico a profitto dell’avvocato; poi ci trovai il mio conto, e da ultimo scopersi tanta differenza fra il male che si diceva di quei giovani e quello che era difatti, che presi a dubitare della buona fede dell’avvocato, e della convenienza dell’ufficio affidatomi. Ch’io cercassi la quiete ai dolori che mi tormentavano nell’adempimento di più alti doveri, andava benissimo: che cercassi di scordare un amore indegno e sciagurato benchè fervidissimo, alzando l’anima nell’adorazione di quelle grandi idee che sono la poesia dell’umanità, in ciò pure non vedeva che bene. Ma che il mio ossequio a quelle grandi idee dovesse ridursi a una finzione continua, ad uno spionaggio indecoroso, che quei miei doveri così alti così sublimi dovessero scader tanto nella pratica, cominciava a metterlo in dubbio. Di più io avea fatto la prova come il padre Pendola voleva, ma non ne era rimasto gran fatto contento. La mia mente si era svagata, ma l’anima era ben lungi da quell’ideale contentamento che la compensa d’ogni altro rammarico. In poche parole, il cervello era occupato ma non il cuore,