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484 le confessioni d’un ottuagenario.

piatti, di bicchieri: e in mezzo a questo il bestiame sciolto dalle stalle che pascolava, e il chiaroscuro della notte imminente dava a quella scena l’apparenza d’una visione fantastica. Io mi precipitai nel castello gridando a perdifiato: Giacomo! Lorenzo! Faustina! ma la mia voce si perdeva nei cortili deserti, e solo di sotto all’atrio mi rispose il nitrir d’un cavallo. Era il ronzino di Marchetto, che sbrigliatosi nel parapiglia di Portogruaro era tornato a casa, più fedele e più coraggioso il povero animale di tutti quegli altri animali, che si vantavano forniti di cervello e di cuore. Un dubbio crudele mi squarciò l’anima riguardo alla vecchia contessa, e passai di volo i cortili e i corritoj, a rischio anche di fiaccarmi il collo contro qualche colonna. Là dentro perchè la luna non potea penetrare, non mi caddero sott’occhio i segni della tregenda, ma ne fiutava passando il puzzo stomachevole. Inciampando nelle imposte scassinate, nelle mobilie fracassate, salii mezzo carpone le scale, nella sala fui quasi per ismarrirmi, tanta era la confusione delle cose che la ingombravano. Lo spavento mi rischiarava, giunsi alla camera della vecchia, e mi vi precipitai entro in un buio terribile gridando da forsennato. Mi rispose dalla profonda oscurità un suono spaventevole, come d’un respiro affannato insieme e minaccioso: il sordo ruggito della fiera, il gemito di un fanciullo armonizzavano in quel rantolo cupo e continuo.

— Signora, signora! — sclamai coi capelli irti sul capo. — Son io! son Carlino! Risponda! —

Allora udii il romore d’un corpo che a stento si sollevava, e gli occhi mi si sbarravano fuori delle orbite per pure discernere qualche cosa in quel mistero di tenebre. Avanzarmi per toccare, retrocedere in cerca di lume, erano partiti che non mi passavano neppure pel capo tanto la terribilità di quell’incertezza mi rendeva attonito ed inerte.

— Ascolta; — cominciò allora una voce la quale a