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capitolo decimoterzo. | 125 |
tromise allora a stornare il dialogo da quel soggetto di tragedia, e l’Aglaura tornò tranquillamente a passare e ripassare in un bel panno pavonazzo la sua agucchiata di seta. Parlammo allora delle novelle che andavano per le bocche di tutti, del prossimo sgombro dei Francesi, dell’ingresso in Venezia degli Imperiali, della pace gloriosamente sperata, e dispoticamente imposta; insomma si parlò di tutto, e le due donne si mescolavano al discorso senza vanità e senza sciocchezze; proprio con quella discrezione ben avveduta che sanno tenere di rado le veneziane, peggio poi allora che adesso. L’Aglaura sembrava accanitissima contro i Francesi, e non si lasciava scappar l’occasione di chiamarli assassini, spergiuri, e mercanti di carne umana. Ma seppi in seguito che la fuga del suo amante, a cagione del nuovo ordinamento che dovea prendere lo Stato pel trattato di Campo-Formio, scaldava il sangue greco nelle sue vene giovanili, e la faceva trascendere in qualche schiamazzata. Il giorno prima ell’era stata in procinto di ammazzarsi, e suo fratello avea impedito questo atto violento gettandole in canale un’ampolletta d’arsenico già bell’e preparato: perciò lo guardava in cagnesco; ma dentro di sè, fors’anco a riguardo della madre, non era malcontenta che l’avesse trattenuta. E così, se maturava ancora fieri propositi pel capo, quello almeno di uccidersi non la molestava più.
Quando fu mezzanotte io presi commiato dagli Apostulos, e tornai verso casa rivolgendo in capo e Spiro e l’Aglaura, e il leggendario dei santi; tutto insomma, meno la deliberazione che pur doveva prendere quanto alla mia sorte futura. Scrissi intanto a coloro che esulavano in Toscana e nella Cisalpina il terribile caso di Leopardo, che mi scusasse della tardanza. Quando anni dopo lessi le Ultime Lettere di Iacopo Ortis, nessuno mi sconficcò dal capo l’opinione, che Ugo Foscolo avesse preso dalla storia luttuosa