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212 le confessioni d'un ottuagenario.


— Dunque voi amate una signorina di Venezia, e convivete ciò nonostante a Milano con questa bellissima greca?

— Pur troppo la è così.

— Stento un po’ a crederla, tanto è singolare. Anzi non ve la credo, non ve la credo! Addio Carlino! —

E andò via allegro allegro, come se il non credermi quella freddura dovesse portare a lui qualche smisurata fortuna. Però m’era avvezzato ai ghiribizzi del signor Ettore, e conchiusi ch’egli era felice di poter sempre ridere. Per me, dopo la partenza di Amilcare, non sentiva più neppure il solletico; e se qualcheduno mi spianava un po’ la fronte, si era l’Aglaura colla sua briosa testardaggine. La mi doveva questo piccolo compenso, per tutte le rabbie e le inquietudini che m’avea fatto soffrire senza apparente motivo, dopo il nostro incontro di Padova.

Una sera eravamo in procinto di partire, e io sedeva con lei nella nostra cameretta di Porta Romana, ove due bauletti, e la nudità degli armadii e dei cassetti ci tenevano a mente il viaggio che dovevamo intraprendere, se anche non ce ne fossimo ricordati anche troppo, pei timori che ne avevamo ambidue senza volerli scambievolmente confessare. Da qualche giorno io teneva all’Aglaura un poco di broncio; quella sua ostinazione di volermi seguire a Roma, benchè priva d’ogni notizia de’ suoi, mi metteva in sospetto sul suo buon cuore. Stava quasi per lanciare la bomba, e per dichiararle la perfidia e l’infedeltà di colui al quale ella sembrava pronta a sacrificare tutto perfino i sacrosanti doveri di figlia, quando non so come ad un suo sguardo pieno d’umiltà e di dolore mi sentii rammollir tutto. E di giudice ch’esser volevo, mi sentii cambiare a poco a poco in penitente. Le angoscie, le incertezze che da tanto tempo mi laceravano, erano cresciute tanto che richiedevano un qualche sfogo. Quell’occhiata