Pagina:Le confessioni di un ottuagenario II.djvu/219

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capitolo decimosesto. 211

cava superfluo per la mia quiete, non essendo le mie smanie altro che astuzie per darla ad intendere alla vecchia contessa, al conte Rinaldo ed al Navagero. Costoro del resto se ne davano pace, e dicessi alla Pisana che in quanto a lui se l’avea pigliata con pace del pari, ma che non sarebbe mancato tempo ad una buona rivincita. Così finiva ricisamente la lettera, onde ebbi il cervello occupato un’altra volta a fabbricare romanzi sulle allusioni degli altri. A che miravano quelle ire di Raimondo colla Pisana? E che cosa mi augurava il disparimento di costei da Venezia?... Fosse proprio vero?... Dimorasse ella in Milano senza farmene motto? — Non mi sembrava possibile. — E poi, con quali mezzi mettersi ad un viaggio e ad una vita dispendiosa sopra gli alberghi?... Gli è vero che aveva qualche diamante, e poteva anche aver ricorso agli Apostulos. Ma di costoro Raimondo non moveva neppur parola. Che cosa ne fosse avvenuto?... Che Spiro languisse ancora in carcere?... Ma suo padre allora perchè non scriveva? — Insomma, le notizie ricevute da Venezia non aggiunsero che una spina di più a quelle che aveva già nel cuore, e mi disponeva di malissima voglia alla partenza. Anche il Carafa non sembrava più tanto impaziente; cioè mi spiego, non guardava più con tanta stizza alla mia volontà mal dissimulata di tardare. Un giorno, mi ricordo, egli mi prese da un lato a quattr’occhi, e mi fece sostenere uno stranissimo interrogatorio. Chi era quella bella greca che dimorava con me, perchè vivevamo insieme, (non lo sapeva neppur io) se avevo altre amanti, e dove, e chi fossero. Insomma mi pareva il confessore d’un contino, appena tornato dal prim’anno d’università. Io risposi sinceramente, ma con qualche imbroglio, massime in punto all’Aglaura. Sfido io! Era materia tanto imbrogliata per sè, che ci voleva assai meno della sorpresa di quella inquisizione per renderla addirittura inestricabile.