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218 le confessioni d’un ottuagenario.

— E dunque perchè non mi segui? — le domandò Spiro, rizzandosi dinanzi a lei come il padrone dinanzi ad una schiava.

— Temo che voi lo sappiate!... — disse l’Aglaura lasciando cadere una ad una queste parole sull’ira di Spiro già pronta a rinfiammarsi. E infatti ottennero l’effetto di calmarlo ancora.

Egli volse per la stanza uno sguardo lungo e indagatore; indi partì dicendone che il domani ci avrebbe veduti, e che tutto in un modo o nell’altro sarebbe finito. Allora, per quanto io supplicassi l’Aglaura perchè mi chiarisse alcune parti del dialogo che non giungeva a comprendere, mi fu impossibile cavarne una sola parola. Piangeva, si stracciava i capelli, ma non voleva confessarsi d’una sillaba. Un poco sdegnato, un po’ impietosito, io mi ritirai nella mia stanza, ma non mi venne fatto di pormi a giacere, e una tormentosa fantasticaggine mi tenne alzato fin dopo mezzanotte. Allora sentii picchiare alla mia camera e credendo che fossero ordini del mio capitano, dissi stizzosamente che entrassero. La camera dava sulla scala e m’avea dimenticato di dare il chiavistello alla porta. Con mia somma maraviglia, invece d’un soldato, rividi Spiro: ma così cambiato in un pajo d’ore che non mi sembrava più lui. Mi pregò umilmente di perdonargli le furibonde escandescenze di prima; e mi supplicò, per quanto aveva di più sacro, che mi adoperassi presso alla Aglaura per ottenergli del pari il perdono. Davvero ch’io ci perdeva la testa, ed egli finì di farmela perdere, gridando cogli occhi sbarrati, che già egli l’amava e che non poteva più trattenersi.

— L’amate? — gli risposi io — ma mi pare che siate perfettamente in regola! Non siete dello stesso sangue, figliuoli degli stessi genitori?... Amatevi dunque, che Dio vi benedica!