Pagina:Le confessioni di un ottuagenario II.djvu/225

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capitolo decimosesto. 217

questi particolari mi rimasero fitti in capo tanto per ordine, dacchè tutta la notte seguente altro non feci che volgerli rivolgerli e commentarli per indovinare da essi le tremende e misteriose passioni che agitavano l’animo di Spiro. Mi sembrava impossibile che lo sdegno d’un fratello dovesse scoppiare così bestiale e violento.

Dopo avere racquistato quella calma, almeno apparente, il giovine greco sedette in mezzo a noi; e ben ci accorgemmo lo sforzo da lui fatto per rimanere, ma non osammo rimproverarglielo. Egli ci spiava ambidue con occhio furtivo, e di volta in volta la compassione, l’abbattimento, e un ultimo resto di rabbia alternavano i loro colori sulle irrequiete sembianze. Ci narrò allora che la mancanza di lettere da parte di suo padre proveniva da questo, ch’egli avea dovuto partire precipitosamente per l’Albania e per la Grecia, donde non era tornato per anco.

— E così — soggiunse egli — e così, Aglaura, voi non volete seguirmi a Venezia ove rimango solo, senza felicità e senza speranza?

— No, Spiro, non posso seguirvi — rispose la giovinetta chinando gli occhi sotto gli sguardi infiammati del giovine. — Spiro mi guardò ancora, chè se la sua occhiata non mi divorò fu proprio perchè non lo poteva: indi si volse ancora alla fanciulla.

— Che speranza mai vi mena ora pel mondo, Aglaura?... Per carità ditelo!... finalmente ho diritto di saperlo!... Son vostro fratello!

Queste ultime parole gli stridevan tanto fra i denti che le intesi appena.

— Ditemi se avete legami di affetto o di dovere, — continuò egli. — Vi giuro che vi aiuterò a santificarli. — (Qui un nuovo stridore, ma più tormentoso e diabolico di prima.)

— No, non ho nulla! — rispose con voce semispenta l’Aglaura.