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342 le confessioni d’un ottuagenario.

non m’avea illuminato abbastanza. Ma dopo cinque e sei giorni, cominciai ad accorgermi che la Pisana non poteva avere tutto il torto ad ingelosire della mia signora padrona. Costei usava verso di me in una tal maniera, che o io era un gran gonzo, o m’invitava a confidenze che non entrano di regola nei diritti d’un maggiordomo. Cosa volete? Non tento nè scusarmi, nè nascondere. Peccai.

La casa della Contessa era delle più frequentate di Milano, ma in onta al temperamento allegro della padrona di casa, le conversazioni non mi parevano nè disinvolte nè animate. Una certa malfidenza, un sussiego spagnolesco, teneva strette le labbra e oscure le fronti di tutti quei signori; e poi secondo me scarseggiava la gioventù, e la poca che vi interveniva era così grulla così scipita da far pietà. Se quelle erano le speranze della patria, bisognava farsi il segno della croce e sperar in Dio. Perfino la signora, che al tu per tu o in ristretto crocchio di famiglia era vivace e corriva forse più del bisogno, nella conversazione invece assumeva un contegno arcigno e impacciato, una guardatura tarda e severa, un modo di movere le labbra che pareva più adatto a mordere che a parlare ed a sorridere. Io non ci capiva nulla: massime allora poi, con quel fervore di vita messoci in corpo dalla convulsa attività del governo italico.

Due settimane dopo ne capii qualche cosa. — Fu annunziato un ospite da Venezia, e rividi con mia somma meraviglia e dopo tanti anni l’avvocato Ormenta. Egli non mi conobbe, perchè l’età e le fogge mutate mi rendevano affatto diverso dallo scolaretto di Padova; io finsi di non conoscer lui, perchè non mi garbava di rappiccarla per nessun verso. Sembra ch’egli venisse a Milano per raccomandare sè ed i suoi alla valida protezione della Contessa; infatti a quei giorni fu un andirivieni maggiore del solito di generali francesi e di alti dignitari italiani. Al-