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358 le confessioni d’un ottuagenario.

La Pisana entrò senza vedere, senza cercare altri che me. Mi si gettò colle braccia al collo senza pianto, senza voce; il suo respiro affannoso, i suoi occhi impietrati e sporgenti fuori dalle orbite, mi dicevano tutto. Oh, vi sono momenti che la memoria sente ancora e sentirà sempre quasichè fossero eterni, ma non può nè esaminarli nè descriverli! Se poteste entrare nella lieve e aerea fiammolina d’un rogo che si spegne, e immaginare cos’ella prova al riversarsi sopra di lei d’una ondata di spirito che la rianima, comprendereste forse il miracolo che si compì allora nell’esser mio!... Fui come soffocato dalla felicità; indi la vita scoppiò ribollente da quel momentaneo assopimento, e sentii un misto di calore e di freschezza corrermi salutare e voluttuoso i nervi le vene.

La Pisana non volle più staccarsi dal mio capezzale; fu questa la sua maniera di chieder perdono e di ottenerlo pronto ed intero. Che dico mai ottenerlo? A ciò avea bastato uno sguardo. Capii allora la vera cagione del mio male, la quale la superbia forse mi avea tenuto nascosta. Mi sentii rivivere, diedi la berta ai medici, e rifiutai le loro insulse pozioni. La Pisana non dormì più una notte, non uscì un istante dalla mia stanza, non lasciò che altra mano fuori della sua toccasse le mie membra, le mie vesti, il mio letto. In tre giorni divenne così pallida e scarna, che pareva più malata di me. Io credo che per non vederla soffrire a lungo, condensai tanto sforzo di volontà nell’adoperarmi a guarire, che accorciai la malattia di qualche settimana, e mutai in perfetta salute la convalescenza. Spiro e l’Aglaura guardavano meravigliati. La Pisana pareva che meno non si aspettasse, tanto era la fede e la sincerità dell’amor suo. Che cosa non le avrei io perdonato!?... Fu di quella volta come delle altre. Le labbra tacquero, ma parlarono i cuori: ella mi avea ridonato la vita e la possibilità di amarla ancora. Me le professai debitore, e l’umiltà