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372 le confessioni d’un ottuagenario.

gnore. Le coscrizioni eviravano letteralmente il popolo; le tasse, le imposizioni mungevano la ricchezza; l’attività materiale non compensava il paese di quello stagnamento morale che intorpidiva le menti. Gli antichi nobili governanti, o avviliti nell’inerzia, o rincantucciati nei posti più meschini dell’amministrazione pubblica; i cittadini, ceto nuovo e ancora scomposto, inetti per mancanza d’educazione al trattamento degli affari. Il commercio languente, la nessuna cura degli armamenti navali, riducevano Venezia una cittaduzza di provincia. La miseria, l’umiliazione trapelavano dappertutto, per quanto il vicerè s’ingegnasse di coprir tutto collo sfarzo glorioso del manto imperiale. Gli Ormenta, i Venchieredo duravano ancora al governo; nè cacciarli si poteva, perchè erano i soli che se ne intendessero; ponendo poi sopra loro altri dignitari francesi e forestieri, s’avea ferito l’orgoglio municipale senza raddrizzare l’andamento obbliquo ed oscuro della cosa pubblica. A Milano, dove o bene o male erano sgusciati da una Repubblica, lo spirito pubblico fermentava ancora. A Venezia, dopo la conquista succedeva la conquista, i servitori succedevano ai servitori, colla venale indifferenza di chi cerca l’interesse del padrone che paga.

Io rimasi un po’ sfiduciato di quei segni d’indolenza e di trascuratezza: vidi che Lucilio non avea poi tutto il torto di esser fuggito a Londra, anzi che il buonsenso pubblico stava per lui. Ma per quanto io avessi cercato di rappiccare corrispondenza con lui, egli non si degnava più di rispondere alle mie lettere. Io mi stancai di picchiare dove non mi si voleva aprire, e m’accontentai di ricevere sue novelle di rimbalzo o da qualche conoscente di Portogruaro, o dalle voci che correvano in piazza. Lo si diceva medico in gran fama a Londra, e accreditatissimo presso le principali famiglie di quell’aristocrazia. Sperava molto nell’Inghilterra, per la cacciata del tiranno Bonaparte dalla