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426 le confessioni d’un ottuagenario.

la nostra vita sempre più cinta e ombrata da sepolcri! Ormai la prima fila è andata quasi tutta. In prima fila siam noi.

— Ma non tremeremo al fuoco, siatene certa. Nè voi, nè io, nè Carlo, abbiamo la smania di vivere. Abbiamo tre tempere differenti ma che s’accordano meravigliosamente in questo di esser ubbidienti e rassegnate alla natura. Bensì, la mia propria natura mi comanda di spender bene e di usare spietatamente la vita. Voglio proprio cavarne ogni succo, e far come dei vinacci, i quali, poichè ne fu spremuto il vino, si torchiano ancora per estrarne l’olio.

— E ne avrete guadagnato?

— Assai! d’aver fatto fruttificare ogni mio talento, e d’aver offerto un buon esempio a quelli che verranno.

Io approvai del capo, chè quella teoria del buon esempio mi avea sempre frullato entro come un ottimo negozio: e me ne fidava più che dei libri. La Pisana soggiunse, ch’ella per verità, in tutte le sue cose, non aveva mai pensato alla gloria di trovar imitatori, ma che si era data con tutta l’anima al sentimento che la trasportava.

— Almeno non avete dato altrui il vostro spirito da intisichirlo! — soggiunse mestamente Lucilio.

Io compiansi nel mio cuore quell’animo forte e tenace, che da quarant’anni covava una piaga; e non voleva saperne nè di guarigione nè d’obblio. Era l’orgoglio smisurato di chi vuol sentire il dolore, per mostrarsi capace di sopportarlo, e poterlo rinfacciare altrui come un tradimento o una viltà. Il medico riverito dai duchi e dai Pari di Londra non ripudiava il medichetto di Fossalta; non confessava di esser stato piccolo, ma pretendeva di esser sempre stato grande ad un modo, e la ferrea vecchiaja porgeva la mano alla bollente giovinezza per sollevarla alla ricompensa d’ogni dolore, alla forza incrollabile della coscienza sicura in se stessa.

In quei pochi giorni che precedettero l’arrivo dei