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Pagina:Le confessioni di un ottuagenario II.djvu/503

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capitolo ventesimoprimo. 495

ch’ebbi a sopportare durante la mia vita, questa, dopo la morte della Pisana, fu la più atroce ed inconsolabile.

Tuttavia il mio dolore fu un nulla appetto alla disperazione di sua madre; la quale non mi perdonò più la morte di Donato come se appunto io ne fossi stato il carnefice. E sì che ella piuttosto ne era stata la causa innocente, esponendolo a dover tollerare una contraddizione, alla quale contraddisse egli poi generosamente versando il suo sangue alla battaglia di Rimini. Invece ella continuò a praticare in casa Fratta, e a menarvi gli altri due nostri figliuoletti; e quando io ne la biasimava ricordandole sommessamente il caso di Donato, ella mi rimbeccava stizzosamente, che quel tristo caso non avrebbe amareggiato la sua vita, se io colle mie tirate liberalesche non avessi guastato il buon frutto che il giovine traeva dalla conversazione di casa Fratta. Come vedete, o per influenza dell’età, o delle amicizie, o per tenerezza materna, si faceva codina ogni giorno più quella buona donna. Ma io confidava nel proverbio, che sangue non è acqua, e che i miei figli non avrebbero partecipato di quella curiosa malattia. Bensì non era d’una tal’indole da oppormi a mano armata ai suoi desiderii, e lasciavala fare a suo modo; rampognandola con molta soavità, solamente allora quando la piccola Pisana era colta in flagranti di bugia, o il Giulietto imbizzarriva di essere corretto, e piuttosto che confessare un mancamento si sarebbe lasciato pestar nel mortaio. Io le chiedeva se l’impostura, la superbia e l’ostinazione fossero per caso i frutti di quel suo nuovo metodo di educazione. Ella mi rispondeva che si accontentava meglio d’aver figliuoli orgogliosi e bugiardi, che di assassinarli colle sue proprie mani, e che badassi a me, e che pensassi al male ch’io le aveva già fatto, senza avvelenarle la vita coi miei rimproveri. Io la compativa pel tanto che aveva sofferto, e cercava di tacere, benchè forse pen-