Pagina:Le confessioni di un ottuagenario II.djvu/513

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capitolo ventesimoprimo. 505

l’ali dietro a quell’aquila, ma ne ammirava da terra il volo luminoso, consolandomi di vedere che altri saliva col ragionamento, ov’io di sbalzo m’era stabilito colla coscienza.

— Lucilio, — gli risposi abbracciandolo nuovamente, — parlando con voi mi sento proprio rinvigorire; questo è segno che le vostre sono idee vere e salutari. Ma per questo appunto non mi proibirete di sperare che la vostra compagnia ci durerà più lungo di quello che volete darci da intendere?...

— Ti prometto che ci faremo buona e allegra compagnia; nulla di più. Potrei anche dirti il tempo, ma non voglio farmi scornare come medico. Insomma son contento di me e tanto deve bastare.

— Desiderereste riveder la Clara? — gli chiesi io. — O ve ne è passata affatto la voglia?...

— No, no! — egli mi rispose — Anzi intendo vederla, per contemplare ancora una volta il fine diverso di un’istessa passione in due temperamenti diversi, e diversamente educati. Imparare più che si può, dev’essere la legge suprema delle anime. Questa sete inestinguibile che abbiamo di sapere e che ci tormenta fino all’istante supremo non dipende da motivo alcuno apparente alla ragione individuale. Essa può benissimo rilevare dalla necessità d’un ordine più vasto che si dilata oltre la morte. Impariamo dunque, impariamo!... La natura sembra disperdere la pioggia a capriccio, ma ogni goccia, per quanto minuta, per quanto infinitesima, è bevuta dalla terra, e trascorre poi, per meati invisibili, dove la richiama la soverchia aridità. L’ozio è un trovato della imbecillità umana; nella natura non v’è ozio, nè cosa che sia inutile.

— Dunque guarderete la Clara, come il notomista che indaga un cadavere?

— No, Carlo, ma guarderò lei, come guardo me: per convincermi sempre più, anche nelle obiezioni appa-