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514 le confessioni d’un ottuagenario.

dei giovani l’uno guadagnava il bisogno nella sua professione di veterinario, l’altro attendeva alle cose sue, e dall’affitto della spezieria, e da uno dei miei poderi che gli aveva ceduto da amministrare, ricavava abbastanza per ristorar la famiglia delle sofferte sciagure.

Quelli invece che andavano di male in peggio erano i conti di Fratta. Sarà stata una sciocchezza ma a me doleva sempre e ne duol tuttavia di vedersi spegnere la famiglia della Pisana. Il dissesto poi d’ogni loro fortuna, non era pareggiato che dalla stoica felicità colla quale lo sopportavano. Rinaldo con compere di libri, e con neglette esazioni, la Clara con improvvide beneficenze, ognuno dal canto suo avea dato fondo ai rimasugli del proprio avere. Rimanevano ancora due o tre coloni, con un’ala cadente del castello e due torri sfiancate, ma gli affitti si disperdevano a destra e a sinistra, nelle mani rabbiose e litiganti dei creditori: non un quattrino ne giungeva a Venezia, quando mai si avrebbe potuto scrivere colà che ne mandassero. Ma bisogna rendere questa giustizia agli ultimi rappresentanti dell’illustre prosapia dei conti di Fratta, erano tanto restii a pagare, come noncuranti di riscuotere. Il conte Rinaldo adunque e la reverenda Clara si trovavano ridotti all’entrata di un ducato al giorno, più le tre lire venete, che la Signora riceveva dall’Erario pubblico come patrizia bisognosa. Ma lo vedete bene che non c’era da gozzovigliare; e infatti l’anno non era per loro che una lunga quaresima.

Fortuna che la signora per le sue estasi serafiche, ed il conte per le continue distrazioni della scienza, non aveano tempo di badare allo stomaco. S’assottigliavano ogni giorno più, ma senza accorgersene; e credo che si sarebbero avvezzati a viver d’aria come l’asino d’Arlecchino. Certo mi ricordo che un giorno, avendo io domandato alla contessa Clara perchè pigliasse tanti caffè minacciata