Pagina:Le confessioni di un ottuagenario II.djvu/527

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capitolo ventesimosecondo. 519

tento patriottico e la critica vasta e profonda erano designati come i pregi principali; il che era vero e l’autore il sapeva, come seppe buon grado al giornalista di aver letto e interpretato a dovere l’opera sua. Un diario toscano copiò nella sostanza il giudizio del giornale milanese aggiungendo qualche cosa del suo, e dando a divedere con queste aggiunte di aver al più malamente sfogliazzato quel libro. Ma dopo cominciarono a comparire qua e là cento critiche, cento giudizii gli uni più strambi degli altri, ricalcati servilmente e variati a piacere da quelle prime relazioni. Si accorgeva alle prime che gli scrittori conoscevano il libro appena nel titolo, e non aveano forse neppur pensato due volte a questo, perchè un dotto pubblicista di Torino ebbe a raccomandare lo studio del conte di Fratta come un ottimo manuale per quei commercianti, che vogliono ajutare la pratica dei loro negozi colle speculazioni della moderna economia. Leggendo quest’ultimo giudizio il povero autore si stropicciò gli occhi, e credette aver straveduto o che almeno non parlassero di lui e della sua opera. Ma poi ci tornò sopra e se ne persuase pur troppo.

— Razza di somari! — mormorò egli fra i denti. — Pazienza non comperarlo, pazienza non leggerlo! Ma non intendere nemmeno il titolo!... Giudicarlo a rompicollo prima di osservarne il frontespizio!... Questa poi trascende ogni misura, e dico il vero che vorrei piuttosto essere lacerato, che lodato da simile genia di aristarchi. —

Era vissuto fino allora nelle biblioteche il conte Rinaldo e non sapeva che quelli non erano tempi da perdersi in letture. E che si lodava e si biasimava senza leggere, appunto perchè si apprezzava più lo spirito e l’intento, che il valore scientifico e la forma delle opere. Ognuno diceva al vicino: — Leggi quel libro che a primo assaggio mi parve buono! — Ma le parole passavano, e il libro restava in bottega. Piuttosto si correva a divorare le recentissime di