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capitolo ventesimosecondo. | 535 |
— Padre mio, — mi rispose col piglio disinvolto d’una prima amorosa che recitasse la sua parte, — vi chieggo perdono di una mancanza che non finirò mai di rimproverarmi; ma non ti conosceva, e aveva più paura della vostra autorità che confidenza nel vostro affetto. Sì, è vero; gli sguardi, le preghiere di Enrico Cisterna mi hanno commossa, e per non vederlo patire, ho voluto concedergli quanto mi domandava.
— E se io ti dicessi che Enrico Cisterna è un tristo, un giovinastro senza decoro e senza probità, al quale l’abbandonarti sarebbe il peggior castigo che potessimo infliggerti?
— Oh non andate in collera!... No, per carità, che non ce n’è il motivo! È vero, ebbi compassione di Enrico; ma non ci sono tanto ostinata, e se non è di vostro piacimento, meglio qualunque altro che lui!...
— Così tu rispondevi alle sue lettere, tu ti abboccavi tutte le sere con esso lui alla finestra...
— Non tutte le sere, padre mio. Appena quella in cui la mamma spegneva il lume prima di mezzanotte. E siccome ella ha molte divozioni distribuite per varii giorni della settimana, così questo non avveniva che il lunedì il mercoledì e la domenica...
— Ciò non monta affatto. Voleva dire che quanto facevi lo facevi per mera compassione.
— Te lo giuro, papà; proprio per compassione.
— Sicchè se domani venisse un gondoliere, un cenciaiolo a domandarti per compassione di far all’amore con lui, gli risponderesti di sì!
— No certo, papà. Il caso sarebbe molto differente.
— Ah dunque convieni che ci vedi dei meriti particolari in Enrico, per sentir piuttosto compassione di lui che di un altro?... Ora favorirai dirmi quali sono questi meriti.