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572 le confessioni d’un ottuagenario.

quattordici. Al primo vederli mi risovvenne di un’incisione veduta alcuni anni sono, rappresentante una famigliuola di contadini raccolta ad aspettare e a pregare sotto una quercia, mentre infuria un gran temporale, tanto sono alieni dalla rabbia consueta dei profughi politici. Si consolano amandosi a vicenda, e, meno Roma, la loro vita è quella d’una volta. Avessi anch’io meco i miei genitori o i miei fratelli! Mi sembrerebbe di portar via una gran parte di patria. Ma sono illeciti questi desiderii, di far comuni appunto ai nostri più cari le peggiori disgrazie. Come sopporterebbero mai due poveri vecchi una vita varia, stentata, angosciosa, senza nessuna certezza nè di riposo, nè di sepolcro? Meglio così; e che il destino mi condanni a patire solo. D’altronde la lontananza della patria stringe i compaesani quasi con legami di famiglia; e m’accorgo già di amare il dottor Ciampoli quasi come padre, e la Gemma e il Fabietto come fratelli. Quella giovinetta è la più soave creatura che m’abbia mai conosciuto; non romana punto, ma donna in tutto, nella grazia, nella gracilità, nella compassione.

Forse che delle donne io non ho cercato finora che le più abbiette, ma costei mi sembra un esemplare più sublime, un tipo quale forse lo avrei sognato se fossi pittore o poeta, ma non avrei creduto mai d’incontrarlo vivo nel mondo. Non è certo di quelle che innamorano, io almeno non oserei; ma hanno in sè quanto può assicurare la felicità d’una famiglia, e spose e madri passano per la vita come apparimenti celesti, tutte per gli altri nulla per sè. Il mal di mare non è guari nè piacevole a vedersi nè facile a sopportare; pure con quanta premura la buona fanciulla si ricordava del Fabietto anche durante gli sforzi più dolorosi! Si vedeva che non avea tempo di badare a sè; ed è la stessa che piangeva questa mattina, perchè un gatto che avevamo a bordo annegò in mare. Omai peraltro