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CAPITOLO DECIMOTERZO.


Un Iacopo Ortis e un Machiavelli veneziano. — Finalmente imparo a conoscere mia madre vent’anni dopo la sua morte. — Venezia fra due Storie. — Una famiglia greca a San Zaccaria. — Mio padre a Costantinopoli. — Spiro ed Aglaura Apostulos.


In casa non trovai mio padre; e la vecchia fantesca maomettana si espresse con tanti segni e gesti negativi, che io mi persuasi la mi volesse dire che non sapeva nemmeno quando sarebbe tornato. Divisava fra me di aspettarlo, quand’ella mi consegnò un polizzino facendomi motto a cenni che era cosa di gran premura. Credeva quasi che fosse una memorietta di mio padre, ma vidi invece che era scritto da Leopardo. — Non ci sei in casa, — diceva egli — perciò ti lascio queste due righe. Ho bisogno di te tosto tosto, per un servigio che di qui a tre ore non mi potresti più rendere. — E non v’erano altri schiarimenti. Faccio intendere alla meglio alla vecchia mora che sarei di ritorno fra breve, piglio il cappello, e via a precipizio fino al Ponte Storto. Che cosa volete? Quel biglietto non diceva nulla, io avea lasciato la mattina stessa Leopardo grave e taciturno come il solito, ma sano e ragionevole. Pure il cuore mi annunciava disgrazie, e avrei voluto aver l’ali ai piedi per giungere più presto. L’uscio di casa era aperto, un lumicino giaceva per terra a piedi della scala: penetrai nella stanza di Leopardo, e lo trovai seduto in una poltrona colla consueta gravità sul volto, ma suffuso d’una maggior pallidezza. Guardava fiso fiso la lucerna, ma al mio entrare volse gli occhi in me, e senza parlare mosse un gesto di saluto. — Grazie, — pareva dirmi sei venuto ancora a tempo! — Io mi sgomentai di quella attitudine, di quel silenzio, e gli chiesi con premurosa in-