Pagina:Le mie prigioni.djvu/163

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Udiva di loro i più miserandi singhiozzi, e tosto mi destava singhiozzando e spaventato.

Talvolta in que’ brevissimi sogni sembravami d’udire la madre consolare gli altri, entrando con essi nel mio carcere, e volgermi le più sante parole sul dovere della rassegnazione; e quand’io più mi rallegrava del suo coraggio e del coraggio degli altri, ella prorompeva improvvisamente in lagrime, e tutti piangevano. Niuno può dire quali strazi fossero allora quelli all’anima mia.

Per uscire di tanta miseria, provai di non andare più affatto a letto. Teneva acceso il lume l’intera notte, e stava al tavolino a leggere e scrivere. Ma che? Veniva il momento ch’io leggeva, destissimo, ma senza capir nulla, e che assolutamente la testa più non mi reggeva a comporre pensieri. Allora io copiava qualche cosa, ma copiava ruminando tutt’altro che ciò ch’io scriveva, ruminando le mie afflizioni.

Eppure, s’io andava a letto era peggio. Niuna posizione m’era tollerabile, giacendo: m’agitava convulso, e conveniva alzarmi. Ovvero se alquanto dormiva, que’ disperanti sogni mi faceano più male del vegliare.