Pagina:Le mille e una notti, 1852, I-II.djvu/281

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fece arrostire, e se lo mangiò a cena nell’appartamento ov’erasi ritirato. Finito il pasto, ricomparve sotto il vestibolo, si sdraiò, ed addormentatosi, si mise a russare in maniera più rumorosa del tuono; il suo sonno durò sino al mattino. Quanto a noi, non ci fu possibile gustare le dolcezze del riposo, e passammo la notte nella più crudele inquietudine. Sorta l’aurora, il gigante si svegliò, alzossi, ed uscì lasciandoci nel palazzo.

«Quando lo credemmo lontano, si ruppe il tristo silenzio da noi osservato la notte, ed affliggendoci tutti a vicenda, facemmo risuonare il palazzo di gemiti e pianti. Benchè in molti, ed un solo nemico fosse il nostro, non ci venne dapprima il pensiero di liberarcene mettendolo a morte; eppure tal impresa, sebben difficilissima da eseguire, era quella che dovevamo naturalmente tentare.

«Deliberammo su vari altri partiti, ma non essendoci appigliati ad alcuno, e sottoponendoci a quanto avesse piaciuto a Dio di disporre sulla nostra sorte, passammo il giorno a percorrere l’isola, cibando frutta ed erbe come il dì precedente. Verso sera, cercammo qualche ricovero ove dormire, ma non ci fu dato trovarne, e fummo obbligati, nostro malgrado, a tornar al palazzo.

«Il gigante non mancò di ritornare, e mangiò di nuovo a cena un nostro compagno; poi addormentatosi, russò fino a giorno; allora uscì, e ci lasciò come già aveva fatto. La nostra condizione ci parve sì terribile, che parecchi fra noi furono sul punto d’andare a precipitarsi in mare, piuttostochè attendere morte sì strana, e sollecitavano gli altri a seguire il loro consiglio. Ma uno della compagnia, prendendo la parola: — È vietato,» disse, «di darci da noi stessi la morte, e quand’anche lecito fosse, non è più ragionevole pensare al mezzo di disfarci del barbaro che ci destina a sì funesta sorte?