Pagina:Le mille e una notti, 1852, I-II.djvu/310

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l’un l’altro colle lagrime agli occhi, deplorammo l’infelice nostro destino.

«Il monte appiè del quale stavamo, formava la costa di un’isola assai lunga e vastissima, e quella costa era tutta coperta di frantumi di vascelli naufragati; e da un’infinità d’ossami che s’incontravano di spazio in ispazio, e c’ispiravano orrore, giudicammo esservisi perduta molta gente. Era pure incredibile la quantità di merci e di ricchezze che ci si presentavano agli occhi da tutte le parti. Tutti questi oggetti servirono ad accrescere la nostra desolazione. Invece che in ogni altro luogo i fiumi mettono foce in mare, quivi al contrario una profonda riviera d’acqua dolce dal mare si allontana, e penetra nella costa traverso una caverna oscura, assai larga ed alta; e quello ch’è più notabile, è che le pietre della montagna sono di cristallo, di rubino e d’altre pietre preziose. Vi vedemmo eziandio la sorgente d’una specie di pece o bitume che scola in mare, e cui i pesci inghiottono, recendola quindi cangiata in ambra grigia, che le onde respingono sulla riva, la quale n’è coperta. Cresconvi pure alberi, la maggior parte aloè, che non la cedono in bontà a quelli di Comari.

«Per finire la descrizione di quel sito, che potrebbesi chiamare una voragine, non ritornandone mai nulla, è impossibile che le navi possano schivarlo, quando se ne siano accostate a certa distanza; poichè, se vi sono spinte da un vento marino, il vento e la corrente le mandano in precipizio; e se vi si trovano quando soffia il vento di terra, il che favorir potrebbe il loro allontanamento, l’altezza della montagna le ferma, producendo una calma che lascia agire la corrente, la quale le spinge contro la costa, ove s’infrangono come vi s’infranse la nostra. Per maggior disgrazia poi, non è possibile toccar la cima del monte, nè salvarsi per veruna strada.