Pagina:Le mille e una notti, 1852, I-II.djvu/311

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«Rimanemmo sulla riva come gente fuor di senno, aspettando di giorno in giorno la morte. Avevamo da prima ripartite egualmente fra noi le provvisioni; e così ciascuno visse più o meno degli altri, secondo il proprio temperamento e l’uso che fece dei viveri.»

Scheherazade cessò di parlare, vedendo apparire l’aurora, e la domane continuò di tal guisa il racconto del sesto viaggio di Sindbad:


NOTTE LXXXVI


— «I primi che morirono,» proseguì Sindbad, «furono seppelliti dagli altri; quanto a me, resi gli ultimi uffici a tutti i miei compagni, ned è cosa da maravigliarsene, poichè, oltre all’aver meglio di essi economizzate le provvigioni toccatemi, ne teneva ancora in serbo altre delle quali m’era ben guardato di far parte ad altrui. Però, quando seppellii l’ultimo, mi rimanevano sì pochi viveri, che giudicai di non poter andare molt’oltre, talchè mi scavai da per me la fossa, risoluto a gettarmivi dentro, non restando più alcuno per darmi sepoltura. Devo confessarvi che occupandomi in quel lavoro, non potei trattenermi dall’accusar me stesso di essere la cagione della mia perdita, e dal pentirmi d’aver intrapreso quell’ultimo viaggio. Nè mi rimasi alle riflessioni, ma m’insanguinai le mani mordendole con furore, e poco mancò non m’affrettassi la morte.

«Ma Dio ebbe di nuovo pietà di me, e m’inspirò il pensiero di andare alla fiumana che ingolfavasi sotto la volta della grotta; ivi, esaminato con molta attenzione il corso dell’acqua, dissi fra me: — Codesta riviera che si nasconde così sotterra, deve uscirne