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NOTTE LXXXIX


— Sire,» disse al sultano, «Sindbad, continuando a raccontare le avventure dell’ultimo suo viaggio:

«Quando i ladroni,» proseguì egli, «ci ebbero spogliati, sostituendo ai nostri, abiti tutti laceri, ci condussero in una grand’isola assai lontana, ove fummo posti all’incanto.

«Io caddi nelle mani d’un ricco mercadante, il quale, appena m’ebbe comprato, mi condusse a casa sua, dove mi fece mangiar bene e vestire convenevolmente da schiavo; alcuni giorni dopo, siccome non erasi ancora ben informato chi fossi, mi domandò se non sapeva qualche mestiere. Gli risposi, senza farmi meglio conoscere, ch’io non era artigiano, ma mercante di professione, e che i corsali tolto mi avevano quanto possedeva. — Ma, ditemi,» ripigliò egli, «non sapreste, trar d’arco?» Gli risposi essere quello uno degli esercizi della mia gioventù, cui non aveva più dimenticato. Allora, datemi un arco ed alcune frecce, e fattomi salire dietro a lui sur un elefante, mi condusse in un bosco lontano dalla città alcune ore di cammino e di vastissima estensione. Ci spingemmo molto innanzi, e quando giudicò a proposito di fermarsi, mi fe’ discendere, e quindi accennatomi un alto albero: — Montate lassù,» mi disse, «e tirate sugli elefanti che vedrete passare, essendovene prodigiosa quantità in questa foresta. Se ne cade qualcuno, venite ad avvisarmi.» Ciò detto, mi lasciò viveri, e riprese la via della città; io rimasi sull’albero tutta la notte in agguato.

«Non ne scoprii alcuno per tutto quel tempo; ma la mattina, appena sorto il sole, ne vidi comparire