Pagina:Le mille e una notti, 1852, I-II.djvu/322

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grosso un dito, di mezzo piede di diametro, il cui tondo rappresentava in rilievo un uomo col ginocchio a terra, che teneva in mano un arco teso colla freccia, in atto di scagliarla contro un lione; e gli spediva in fine una ricca tavola, che per tradizione si credeva provenire dal gran Salomone. La lettera del califfo era così concepita:

«Salute, in nome delle sovrana guida del retto sentiero, al potente
e felice sultano, per parte di Abdalla Aaron-al-Raschid,
che Dio ha collocato nel posto d’onore dopo i suoi
maggiori di felice memoria.


«Abbiamo ricevuta con giubilo la vostra lettera, e vi mandiamo le presenti emanate dal consiglio della nostra Porta, il giardino degli spiriti superiori. Speriamo che volgendovi sopra gli occhi, conoscerete la nostra buona intenzione, e l’avrete per grata. Addio.

«Ebbe gran piacere il re di Serendib vedendo il califfo corrispondere all’amicizia che gli aveva manifestata. Poco tempo dopo tale udienza, io sollecitai quella di congedo, ch’ebbi molta difficoltà ad ottenere. Infine l’ottenni; ed il re, nel congedarmi, mi fece uno splendido regalo. M’imbarcai subito col disegno di tornarmene a Bagdad; ma non ebbi il bene di giungervi come sperava, e Iddio dispose altrimenti.

«Tre o quattro giorni dopo la nostra partenza, fummo assaliti da corsari, i quali non istentarono ad impadronirsi del nostro bastimento, non essendo noi menomamente in grado di difenderlo; alcuni dell’equipaggio che vollero resistere, ne perdettero la vita; ed io e tutti quelli ch’ebbero la prudenza di non opporsi ai pirati, fummo fatti schiavi...»

Il giorno, che spuntava, impose silenzio a Scheherazade; l’indomani ripigliò essa la continuazione della sua storia: