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Pagina:Le mille e una notti, 1852, I-II.djvu/653

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NOTTE CCVII


— Sire, lasciamo ieri la confidente di Schemselnihar nella moschea, ove faceva al gioielliere il racconto di quanto erale accaduto dacchè non si avevano veduto, e le circostanze del ritorno della sua padrona al palazzo. Proseguì essa così:

«Diedi,» disse, «la mano alla mia padrona per aiutarla a metter piede terra, ed aveva ella gran bisogno di quel soccorso, non potendosi quasi più sostenere. Appena sbarcata, mi disse all’orecchio, con accento che palesava la sua afflizione, di andar a prendere una borsa di mille pezze d’oro, e darla ai due soldati che l’avevano accompagnata. La misi fra le braccia delle due schiave acciò la reggessero; e detto alle guardie di aspettarmi un momento, corsi a prendere la borsa, e tornando di volo, la diedi ai due soldati, pagai il barcaiuolo, e chiusi la porta. Raggiunsi poi Schemselnihar, la quale non era ancor arrivata alla sua stanza; non perdemmo tempo a spogliarla e metterla a letto, dove appena fu, parve volesse esalar l’anima per tutto il resto della notte. Il giorno appresso, le altre sue donne dimostrarono molta premura di vederla; ma io dissi loro che, essendo tornata estremamente stanca, aveva bisogno di riposo per rimettersi. Le prodigammo frattanto, le altre due donne ed io, tutti gl’immaginabili soccorsi che attender poteva dal nostro zelo. Si ostinò sulle prime a non voler prender nulla, ed avremmo disperato della sua vita, se non ci fossimo accorte che il vino cui le facevamo bere di tanto in tanto, la rimetteva in forza. A furia di preghiere, vincemmo alfine la sua ostinazione, e la obbligammo a mangiare. Quando