Pagina:Le mille ed una notti, 1852, III-IV.djvu/207

Da Wikisource.

189


pur troppo mi fa conoscere ch’io sono il più infelice degli uomini. Perdonate, o signora, la libertà che mi prendo di dirvelo. Non ho potuto vedervi senza donarvi il mio cuore; nè voi medesima ignorate non essere stato in mio potere di ricusarvelo, e ciò rende scusabile la mia temerità. Io mi proponeva di commovere il vostro co’ miei rispetti, colle cure, le compiacenze e le mie assiduità, la mia sommissione e la mia costanza; ed appena ho concepito questo lusinghiero progetto, eccomi deluso in tutte le mie speranze. Non son certo di sopportare a lungo sì grave disgrazia. Ma checchè possa accadere, avrò la consolazione di morire tutto vostro. Finite, signora, finite, ve ne scongiuro, di darmi un intiero schiarimento sul mio tristo destino.

«Non potè pronunciare tali parole senza spargere qualche lagrima. La dama ne fu commossa, e lungi dal dolersi della dichiarazione udita, ne provò una segreta gioia, chè il suo cuore già cominciava a lasciarsi sorprendere. Dissimulò tuttavia, e quasi non avesse badato al discorso di Ganem: — Mi sarei ben guardata,» gli rispose, e di farvi vedere il mio velo, se avessi creduto che vi potess’essere cagione di tanto dispiacere; nè veggo che le cose, cui sono per dirvi, debbano rendere la vostra sorte tanto deplorabile quanto v’immaginate. Saprete dunque,» proseguiva, «per raccontarvi la mia storia, ch’io mi chiamo Tormenta (1), nome che mi fu imposto al momento della nascita, poichè si giudicò che la mia vista cagionerebbe un giorno gravi mali. Esso non vi dev’essere ignoto, non essendovi alcuno in Bagdad il quale non sappia che il califfo Aaron-al-Raschid, mio sovrano padrone e vostro, ha una favorita così chiamata. Condotta fino dalla più tenera infanzia nel suo palazzo,

  1. Fetnab.