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NOTTE CDXXII
— La principessa Parizade, dopo aver ringraziato il dervis, e preso da lui commiato, risalì a cavallo, gettò la palla e la seguì per la strada che prese rotolando: la palla continuò a correre, e finalmente fermossi appiè del monte.
«La donzella smontò, turossi col cotone le orecchie, e ben rimirata la via che doveva tenere per giungere in cima, cominciò a salire a passi eguali e con intrepidezza. Intese le voci, e tosto si avvide di qual aiuto le fosse il cotone. Più inoltravasi, e più le voci moltiplicavano e diventavano forti, ma non al punto di farle un’impressione capace di turbarla. Udì più sorta d’ingiurie e motteggi piccanti relativi al suo sesso, ch’essa disprezzò, non facendo che riderne.
«— Non mi offendo nè delle villanie, nè delle beffe vostre,» diceva fra sè; «dite anche peggio, me ne rido, e non m’impedirete di continuare la mia strada.» Montò finalmente tant’alto, che cominciava a vedere la gabbia e l’uccello, il quale, d’accordo colle voci, procurava d’intimorirla, gridando con voce tuonante, malgrado la picciolezza del suo corpo:
«— Pazza, allontanati, non accostarti. —
«La nostra eroina, vie maggiormente animata da quell’oggetto, raddoppiò il passo, e quando si vide prossima alla meta della sua carriera, superò veloce il resto dell’erta, giunse sull’alto del monte, dove il suolo era piano, corse dritto alla gabbia, e postevi le