Pagina:Le mille ed una notti, 1852, VII-VIII.djvu/231

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nosciuto per lo spirito piccante e la giovialità del conversare. — Ignoro,» gli disse, «cosa mi conturbi e m’agiti; ma ho bisogno che qualcuno metta tregua alla tristezza che mi divora. — Volete,» rispose il favorito, «che vi racconti una storia della mia gioventù? Son certo che v’interesserà.

«Ancor giovanissimo, m’invaghii perdutamente di una fanciulla araba, brillante di grazia e beltà, che abitava co’ suoi genitori. La sua famiglia era d’una delle tribù del deserto, ed io mi assentava spesso per andar alla loro tenda. Un giorno, pieno di vaga inquietudine, come per presentimento di ciò che doveva accadermi, decisi, per distrazione, di recarmi presso alla mia diletta. Volai dunque al campo... la mia bella Araba e tutta la sua famiglia erano spariti. Pieno di spavento, m’informo da alcuni Persiani di ciò che m’interessava e sento che i genitori della mia diletta erano andati a piantare le tende in altro paese, a motivo della scarsezza del foraggio. Volsi gli occhi in giro, e nulla annunziandomi vicino il loro ritorno, presi il partito di andarne in cerca, e benchè già si avvicinasse la notte, insellai il camello, presi gli abiti, e cintami al fianco la scimitarra, mi posi in viaggio. Aveva appena fatto un po’ di cammino, che le più dense tenebre m’avvolsero, ed erano tali che ora mi sprofondava nelle sabbie e ne’ burroni, ora saliva su per le colline, udendo, intorno di continuo le urla delle bestie feroci. Atterrito, non cessava di raccomandarmi all’Altissimo, solo nostro rifugio nel momento del pericolo. Infine invasemi i sensi una specie di torpore e m’addormentai. Durante il sonno, il mio camello si smarrì, ed allontanatosi dalla strada ch’io volea seguire, un ramo d’albero mi venne d’improvviso a percuotere con tal violenza la testa, che mi destò, cagionandomi sì vivo dolore, che venni meno. Non so quanto