Pagina:Le murate di Firenze, ossia, la casa della depravazione e della morte.djvu/22

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CAPITOLO XXIV.

Un sogno.



Dei tanti sogni che rammento di aver fatti in vita mia, niun fu mai così fantastico, strano, prolisso, come quello che or sono per narrare; nè ricordo di aver mai di alcuno, come di questo, conservata precisa ed esatta memoria.

La scena si apriva colla rappresentanza di un fatto vero e reale: conciossiachè parevami di esser prigioniero alle Murate, e di giacere insonne nel mio letticciuolo. D’un tratto mi ferisce l’orecchio un lontano muggito, un rumor cupo, sordo continuo, quasi il rubbolar del mare quando vuol far tempesta. Balzo su del letto a mezza vita, sospendo il respiro, appunto gli orecchi e sogguardo la finestra. Un improvviso splendore illumina la cella, da ogni parte sorgono disperate grida, le quali insiem coi bussi profondi che rimbomban pei lunghi corridoi, m’annunziano un pericolo imminente e grave. Getto le coltri, salto a terra e corro alla finestra; orribile vista! da ogni sfondo dello stabilimento sbucavano mugghiando ardentissime fiamme gettando a gran vortici nero e denso fumo. Gli urli, le strida che disperatamente mettevano i carcerati, confuse e mescolate al rantoloso lamentar dei morenti, quella scena riempivano di ribrezzo e di orrore. Nessuno accorreva ad aprir gl’usci, niuno tentava estinguere o circoscriver l’incendio, niun provvedimento, niun riparo era preso, e i miseri prigionieri,