Pagina:Le murate di Firenze, ossia, la casa della depravazione e della morte.djvu/29

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di peso, tolto all’acqua e sollevato in alto, l’acuto dolore delle trafitte reni, mi fè strettamente serrare i denti e raggricchiarmi tutto. Il poderoso animale vogando di gran lena mi trasportava con tanta velocità, che mi sentiva gelar le membra dal gran vento che mi facevan d'intorno l'ali. Aprii gli occhi, e mi viddi sotto i furiosi cavalloni di quell'acque tempestose, dalle quali credei dover morire aggorgato.

Vago di conoscere da chi fossi tolto per la seconda volta a morte, torcendo il collo mi guardai alle spalle, e viddi un’aquila grandissima tutta bianca come neve, che colle zampe allungate fortemente mi teneva aggrappato, senza che adesso alcun dolore ne sentissi. Lunghe avea le ali, largo il petto, spesse, compatte e lucide le penne; ma qual fu la mia sorpresa allor che essa, calato il capo, mostrommi che dal petto d'aquila, nudo spiccavasi, bianco e snello un collo umano, cui soprastava la bella faccia d'angelica donna! Tenera mi guardò e penetrandomi il cuore con amoroso sorriso, drizzò i suoi belli occhi al cielo, accennandolo del capo.

— Oh sì! diss’ìo, tutto d’amor compreso, t'intendo anima bella, al cielo i nostri voti, al cielo! - Oh come ben ricordo ancora quello sguardo e quel sorriso!

Quando io ritornai la faccia abbasso non viddi più sottostarmi il mare, invece mi trovai vicino e sopra una catena di alte e dirupate montagne. La mia salvatrice calommi pianamente a terra, e mi posò su di un piccol piano di fitta erbetta strato, che sul fianco stendevasi di un alto monte. Toccata terra appena, balzai ritto in piedi rivolgendomi all'aquila per dimostrarle la mia gratitudine e riconoscenza; ma essa prevedendo il mio intendimento, così mi prevenne: