Pagina:Le murate di Firenze, ossia, la casa della depravazione e della morte.djvu/31

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— Infelice! Io mentire? Col tempo lo vedrai.

Ciò detto si staccò da me, e avviossi alla volta di un grosso macigno, che sporgendo da una balza faceva caverna, e là dentro entrò mettendo in arco la persona. Poco stante n’uscì con in mano un mantello rosso:

— Prendi, mi disse, copriti! Con questo mantello in dosso tu sarai a tutti invisibile; nè i tuoi passi, nè le tue parole saranno da alcuno intese.

Lo presi, ma prima di vestirmene, il vecchio domandai, se esso almeno m’avrebbe veduto sempre e inteso.

— Per me, rispose, non ha virtù alcuna, e agli occhi miei tu rimarrai sempre qual sei adesso. Allora me lo buttai sulle spalle e mi copersi tutto.

— Or meco vieni, riprese il vecchio, ma lungo il nostro cammino non mi far dimande, perchè non avrai risposta.

— Posso sapere almeno chi voi siate?

— Sono il buon genio: ti basti, seguimi!

Prendemmo il monte avviandoci per la pesta di un sentieruolo arduo e difficile, che saliva repente fra ronchiosi e diroccati massi. Camminammo buon tratto silenziosi e muti, e come fummo gunti in cima al monte, mi viddi innanzi un immenso prato, in mezzo al quale torreggiava maestoso un vasto e magnifico palazzo. Il prato verdeggiava di una minuta, molle, spessa erbetta, ed era bellamente smaltato di vaghi e variopinti fiori. Niuna via era ivi segnata, nè appariva che alcun piede avesse mai calcate quell’erbe, onde stretto da cunosità grandissima e da stupore, non potendo più tener silenzio:

— Buon genio, dissi posso io parlare ancora? — Chiedi.